La ministra generalessa Pinotti ha svolazzato per i cieli del Kurdistan iracheno (ufficialmente un governatorato, di fatto uno Stato kurdo nello Stato iracheno che lo contiene in una forma istituzionale piuttosto inedita) nei giorni scorsi. È andata a trovare il ministro degli interni curdo e comandante dei Peshmerga, Karim Sinjari. La discesa della ministra dal velivolo è stata ripresa e il filmato è stato divulgato: tanto per far vedere che i politici italiani non sono certo vigliacchi (e nemmeno le politiche) e si recano addirittura nei pressi dei teatri di guerra.
La questione principale di cui i ministri avranno parlato, si presume, è stata quella dell’imminente invio di una forza di almeno 450 soldati italiani, che saranno utilizzati per la protezione dei tecnici della società italiana Trevi che hanno cominciato a lavorare, in numero ancora ridotto ma presto crescente, alla ristrutturazione dell’importantissima diga di Mosul, che si trova, appunto, in territorio controllato dai Peshmerga.
La diga è situata a 35 chilometri di distanza dalla grande città di Mosul (più di un milione e mezzo di abitanti), l’antica Ninive assira, che nel 2014 è caduta in mano alle forze militari di Isis (o Daesh, come meglio si intende chiamare lo Stato islamico nato tra Siria e Iraq). Il crollo della diga potrebbe arrecare gravissimi danni al territorio sottostante e addirittura l’inabissamento, sotto diversi metri d’acqua, della stessa Mosul. Il pericolo non sembra imminente, ma la manutenzione è necessaria e la ditta italiana si è procurata un buon appalto che genererà un discreto profitto. Allo Stato italiano, invece, cioè ai suoi contribuenti, la spesa ingente della protezione dei tecnici: 450 soldati sul posto e l’uso di mezzi bellici in quantità notevole è sicuramente impresa costosa. Tanto che alcuni si sono chiesti se valga la pena intervenire in questo modo: all’impresa conviene sicuramente, ma allo Stato italiano che si carica solo di oneri finanziari senza un apparente vantaggio?
Ma forse il vantaggio, a ben vedere, da un punto di vista strategico e politico, il nostro governo lo vede. O comunque, su pressione degli alleati e dei soggetti più guerrafondai all’interno del nostro Paese, è costretto a vederlo.
Proviamo a svolgere una piccola analisi della situazione attuale in quella regione inquieta.
L’Italia è impegnata nell’operazione denominata Prima Parthica, alla quale partecipano forze dell’esercito, forze speciali di varie armi e carabinieri. Tale intervento ha come scopo l’assistenza aerea degli alleati (per esempio i rifornimenti in volo degli aerei impegnati a bombardare qua e là), la ricognizione dall’alto e l’addestramento delle forze militari e di sicurezza irachene e curde (che si effettua a Baghdad e a Erbil). Ci sono in Iraq (compreso il Kurdistan iracheno) già circa 850 militari italiani con queste funzioni. Con l’aggiunta dei 450 che arriveranno in tutto alla diga di Mosul, il numero salirà addirittura a 1300: e sarà il maggior contingente straniero (forse dopo gli USA, ma magari anche sopravanzandoli) presente in territorio iracheno. E poi ci sono i 270 militari italiani presenti in Kuwait, dove sono di stanza i quattro Tornado e i due droni Predator adoperati appunto, fino ad oggi, per voli di ricognizione. Il Kuwait: lo Stato al quale Leonardocompany (il nuovo nome immaginifico di Finmeccanica) ha appena venduto 28 cacciabombardieri Eurofighter, lo Stato impegnato insieme all’Arabia Saudita e ad altri alleati nei combattimenti in Yemen che hanno già provocato migliaia di morti soprattutto tra i civili. Se aggiungiamo i Mangusta, gli elicotteri da combattimento che sono stati spostati in territorio curdo iracheno, apparentemente per la protezione dei lavori alla diga, allora abbiamo un quadro abbastanza inquietante dello schieramento delle nostre forze che inizia ad essere decisamente significativo.
A quale scopo questo dispiegamento che è sempre più inquietante?
È vero che la diga sta a non molti chilometri dal fronte tra il territorio controllato dai Peshmerga e quello controllato da ISIS (Daesh); però da quelle parti non si sta attualmente combattendo in modo pesante. La zona della diga si dice sia abbastanza tranquilla e quindi lo schieramento di militari italiani, già in piccola parte effettuato, sembra eccessivo. Tanto più che a protezione dei lavori della diga vi sono già numerosi contractor di una società inglese (i figli di Albione sono sempre molto mobili, specie in Medio Oriente: è tradizione…). Se dovesse saltare la diga, allora verrebbero sommersi un bel po’ di individui e magari anche i capi di ISIS nel territorio iracheno. Difficilmente Mosul resisterebbe in vita come città subacquea in stile Atlantide dopo il cataclisma: l’antica Ninive diventerebbe una splendida città sommersa. E però questa cosa sembra che non debba accadere e che non sia desiderata da nessuno: difficilmente i guerrieri dello Stato islamico decideranno di bombardare la diga provocando il proprio auto-affogamento. Difficilmente iracheni e Peshmerga curdi potrebbero immaginare di fare qualcosa di simile.
Quindi sembra eccessivo pensare che sia necessario proteggere in questo modo molto dispendioso i lavori che saranno effettuati per lo più da maestranze locali e da solo una settantina al massimo di italiani dipendenti della Trevi.
Dunque che ci staranno a fare i soldati italiani da quelle parti? Solo una protezione delle maestranze impegnate al consolidamento della diga, cosa che dovrebbe protrarsi per meno di due anni? Oppure qualcosa di più? Si tratta forse di una maschera per nascondere altre possibili intenzioni? Uno schieramento tattico in vista di altre operazioni imminenti, forse? C’è chi ipotizza (vedi recentemente Gaiani in Analisidifesa) che una presenza così massiccia di soldati, dotati anche di forze di artiglieria non indifferenti e appoggiati da elicotteri da combattimento, non serva solo a proteggere i lavoratori impegnati alla diga. Sarebbero bastati meno soldati o addirittura anche solo i contractor parimenti presenti sul posto. Si può quindi ipotizzare che i soldati italiani siano stati inviati da quelle parti allo scopo di appoggiare un imminente attacco dei Peshmerga in direzione del fronte, situato a una trentina di chilometri dalla diga?
Se ciò si dovesse rivelare vero, significherebbe che le forze armate italiane cambierebbero il loro atteggiamento su quel teatro, dove, fino ad oggi, si sono limitate ad operazioni di appoggio degli alleati, di ricognizione e di addestramento delle truppe irachene e dei Peshmerga curdi.
La cosa non dovrebbe destare troppa meraviglia visto che, da parte degli USA e della NATO, si sta chiedendo da tempo un maggiore impegno dell’Italia e di altri Paesi europei nelle operazioni di guerra e di controllo di territori dei vari luoghi del mondo in cui sono in corso conflitti di rilevanza strategica.
Si tratta di una piccola anticipazione di ciò che ci potrebbe aspettare nei prossimi anni e che vede già in atto operazioni significative delle truppe italiane in Iraq, appunto, e in Libia. Un impegno sempre più intenso, per uomini impiegati e per dispendio di mezzi e di risorse finanziarie, al servizio di una concezione geopolitica precisa: la condivisione di una missione di controllo dei territori dove le crisi sono più intense, allo scopo di mantenere le posizioni nello scontro già evidente tra nuovi blocchi in competizione dinamica, avendo la Russia e la Cina come principali antagonisti, ma anche altre potenze regionali come possibili fonti di rischio crescente (nella regione in questione l’Iran, per esempio, ma anche gli Stati sunniti del Golfo, alleati sempre più pericolosi e da verificare giorno per giorno riguardo alle loro reali intenzioni).
In definitiva: l’Italia viene sempre di più coinvolta nei giochi strategici internazionali, attraverso un impegno al servizio della NATO o di coalizioni di volenterosi che di volta in volta si vanno a costituire attorno agli USA. La proiezione esterna delle truppe italiane è sempre più frequente e più dispendiosa: gli alleati pretendono un impegno maggiore e non si accontentano solo di assistenza tecnica e logistica.
Ci aspettano quindi anni e decenni di apparente pace interna, sotto la costante minaccia di attacchi terroristici come conseguenza ovvia della guerra globale asimmetrica in corso, e di battaglie episodiche che coinvolgeranno i soldati italiani nei teatri instabili del Medio Oriente e del Nord Africa. Un vero orgasmo continuo per i guerrafondai di diversa origine e ideologia, una sconfitta bruciante per gli antimilitaristi e per i pacifisti, dalla quale non si vede attualmente modo di riprendersi, visto che la reazione popolare al crescente impegno bellico italiano è quasi nulla e gestita da una minoranza di mobilitati alle prese con un’opinione pubblica manipolata e passiva. L’azione meritoria di minoranze antimilitariste che si esprimono a volte efficacemente in territori ristretti, a macchia di leopardo, nel nostro Paese, non fa diminuire la preoccupazione nel constatare la tendenza della maggior parte delle persone a un’inerzia complice di fronte all’azione dei guerrafondai presenti nei governi e nelle multinazionali.
Dom Argiropulo di Zab